150 anni dalla “Rivolta del Sette e Mezzo”, ma i libri di scuola dimenticano la sollevazione dei palermitani
Il 16 settembre di 150 anni fa i palermitani scesero in piazza per ribellarsi agli assassini e predoni di casa Savoia. La rivolta durò sette giorni e mezzo e fu repressa nel sangue dai generali piemontesi.
di Simone Gradino
“Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano“. Così scriveva Garibaldi ad Adelaide Cairoli nel 1866. I palermitani nel Settembre di quello stesso anno fecero molto di più, rivoltandosi e prendendo a fucilate i nuovi padroni dell’Isola. Il 15 Settembre del 1866, esattamente 150 anni fa, infatti, scoppiò a Palermo quella che è passata alla storia come “La rivolta del Sette e Mezzo”, così detta perché durò dal 15 al 22 Settembre di quell’anno. Erano passati appena sei anni dell’unità d’Italia, e i siciliani si erano accorti a loro spese che s’era passati ad un regime prevaricatore e repressivo, che aveva finito per tutelare, in una scontata logica gattopardiana, le stesse classi e la stessa aristocrazia terriera, il cui potere i siciliani si erano illusi fosse finito con l’unità d’Italia. Con il “Sette e Mezzo”, i palermitani si riscoprirono i degni eredi dei Vespri Siciliani, per lo spirito di ribellione, come allora, contro ogni forma di sopraffazione e di violenza. Fu lo scontro feroce tra chi annettendo la Sicilia intendeva colonizzarla e chi da quell’annessione si illudeva di essere affrancato da ogni forma di dispotismo ed assolutismo.
La rivolta scoppiò puntuale il 15 Settembre del 1866, al grido di “Viva la Repubblica”, “Viva santa Rosalia”, “Viva Francesco II” ed allo sventolare delle bandiere rosse, a dimostrazione dell’eterogeneità e della spontaneità dell’insurrezione. Alla rivolta presero parte renitenti di leva, ecclesiastici espropriati, repubblicani, mazziniani, socialisti, autonomisti, impiegati borbonici cacciati dai loro posti di lavoro, legittimisti, contadini che avevano sperato con le promesse di Garibaldi nella distribuzione delle terre ed avevano ricevuto soltanto fucilate, ed i rappresentanti delle arti e dei mestieri, colpiti pesantemente dalla soppressione delle corporazioni religiose. Tutti accomunati nell’avversione verso un regime accentratore e dispotico, che nulla concedeva alle aspettative che il nuovo Stato unitario, in premessa, aveva illusoriamente creato. Anche se la rivolta non ebbe un capo carismatico – e proprio per questo da alcuni storici fu definita “acefala” – furono proprio i rappresentanti delle corporazioni ad essere i soggetti propulsori della rivolta palermitana del “Sette e Mezzo”. Gli uomini che seppero condurre con disciplina l’azione degli insorti furono dei capisquadra riconosciuti autorevolmente nei vari quartieri di Palermo e rappresentanti delle varie corporazioni e dei ceti artigianali.
Per dare maggiore legittimazione ed autorevolezza all’insurrezione venne costituito un comitato provvisorio rivoluzionario, rappresentativo di tutte le componenti che avevano promosso la rivolta, con la presenza anche di aristocratici, quali il marchese di Torrearsa ed il principe di Linguaglossa. A quest’ultimo venne affidato il compito di presiedere la rivolta. La vera forza e la motivazione ideale dei rivoltosi fu la consapevolezza della “giusta causa” per la quale si battevano, spinti ormai da una condizione che andava oltre ogni limite di sopportazione per lo stato di prostazione sociale e di repressione autoritaria cui erano stati sottoposti dal nuovo governo Italo-piemontese con nuove tasse, la coscrizione obbligatoria e, in ultimo, la soppressione delle corporazioni religiose. In poche ore, i rivoltosi, così fortemente motivati, riuscirono a sconfiggere le truppe sabaude comandate dal generale Calderina ed assumere in pieno il controllo della situazione. Nei giorni successivi al 15 Settembre sbarcarono al porto di Palermo, ad ondate successive, più di 40.000 regi agli ordini del generale Raffaele Cadorna per reprimere nel sangue la rivolta e decretare lo stato d’assedio della città di Palermo. In quegli eroici sette giorni i palermitani provarono l’ebbrezza e coltivarono la speranza di essere padroni dei loro destini, del loro futuro e della loro città. Avevano costretto ad asserragliarsi nel Palazzo di Città, il generale Camozzi comandante della guardia nazionale forte di 12.000 uomini, il prefetto Torelli ed il sindaco, marchese Starrabba di Rudinì.
Alla fine di quelle eroiche sette giornate di lotta i rivoltosi di Palermo furono costretti alla resa. I caduti e i feriti per le strade si contarono a migliaia. Mentre il generale Raffaele Cadorna (padre di Luigi, l’artefice delle disfatta di Caporetto), ormai padrone della piazza, poteva decretare lo stato d’assedio della città. La reazione e le rappresaglie più sanguinose e terribili non si fecero attendere. Mentre da parte dei rivoltosi, per tutto il tempo della sommossa, sì era tenuto un contegno corretto, da veri rivoluzionari e non da briganti, senza che ci si abbandonasse a saccheggi e vendette personali o a ruberie, diverso fu il comportamento delle truppe regie e governative una volta ristabilito l’ordine. In questo senso è significativa l’autorevole testimonianza del console di Francia dell’epoca a Palermo, che sul corretto comportamento dei rivoltosi durante la sommossa così ebbe a scrivere: “I numerosi soldati ed ufficiali, che sono stati fatti prigionieri, non sono stati fatti oggetto di alcun cattivo trattamento. Tutti i consolati e le delegazioni straniere sono state rispettate. Questa condotta – concludeva il console di Francia – non è certo quella dei briganti, ma di veri rivoluzionari che si rifanno ad un ideale, ad uno scopo politico ed a una giusta causa”. Dall’ altra parte in una lettera un ufficiale dei granatieri, a testimonianza delle atrocità commesse dai regi, scrisse ad alcuni amici: “Vi posso assicurare che qualche vendetta la facemmo anche noi, cucinando quanto ci capitava. Anzi il 23 settembre, condotti fuori porta circa 80 arrestati si posero in un fosso e ci si fece fuoco addosso, finché bastò per ucciderli tutti“.
Una rivolta, quella del “Sette e Mezzo” del Settembre del 1866, epica e certamente gloriosa ma, puntualmente ignorata e dimenticata dai libri di scuola e dalla storiografia risorgimentale. Una rivolta che rimane un’eroica pagina della storia del popolo palermitano e proprio perché dimenticata è da parte nostra un atto dovuto ricordarla nella ricorrenza del suo 150° anniversario.
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